Presentazione di
A che età è meglio iniziare a fare sport? Quanto tempo è meglio dedicare allo sport nei primi anni della scuola? La domanda importante è: Da che età è meglio specializzare o super specializzare? La risposta noi tecnici che abbiamo partecipato ad ogni tipo di corso è: più tardi possibile. Eppure i fatti sono sempre diversi dalle parole. L'amico Fabio Borselli pochi giorni fa scriveva un articolo interessante sulla super specializzazione precoce "Fuss, Sietz, Platz" a cui seguiva un altro articolo "da cosa nasce cosa" prendendo spunto dall'intervento della Dott.ssa Laura Bortoli all'ultima coach convention.
L'argomento è molto complesso, ma credo che al nostro interno esiga un dibattito e delle risposte il più possibile corrette. C'è in ballo la formazione e il futuro dei nostri figli; di questo stiamo parlando. Da tempo si dibatte sull'opportunità di organizzare un Campionato invernale giovanile. Giocare sempre di più e per più mesi all'anno. E' questo l'obiettivo corretto per il futuro dei nostri giovani? Un bambino o una bambina che inizia a giocare dalla scuola materna o primi anni della elementare e che farà solo quello 12 mesi all'anno, sarà più forte nell'età ragazzi? Sicuramente si. Lo sarà anche in età adulta? Forse no. Sicuramente avrà perso molte opportunità di crescita come sportivo, come uomo o come donna. Ed allora dobbiamo interrogarci sul futuro e lo dovrà fare chi dirige una società, chi allena e anche chi legifera in ambito federale.
Per aiutare il dibattito ecco un articolo che per la sua ampiezza è stato suddiviso in due parti. Proviene dal sito Human Kinetics e ci viene presentato da Frankie Russo. Nel 2015 è uscito un libro negli Stati Uniti dal titolo: "Best Practice for youth sport" scritto a quattro mani da Robin S. Vealey e Melissa A. Chase, professori alla Miami University in Oxford nell'Ohio.
Vi auguro una buona lettura senza fretta, per un argomento che lo esige e rubo un'immagine dal sito di Fabio Borselli.
Articolo tratto da Human Kinetics.com
1^ parte
La specializzazione giovanile
Abbiamo già avuto modo di riscontrare che molti atleti più esperti tendono a praticare diversi sport e attività, enfatizzando il divertimento fino all’età di 12 anni. In seguito, intorno ai 13 anni, essi concentreranno la loro attenzione sul loro sport favorito. Questo ci porta a concludere che una specializzazione precoce non è necessaria. Tuttavia, ci sono genitori e allenatori che credono che una specializzazione anticipata possa portare vantaggi. E cosa comporta la specializzazione di un atleta nell’età dei suoi “teen” (13-19)? Devono tralasciare ogni altra attività per dedicarsi a una sola escludendo tutto il resto? E quanto tempo dovrebbero dedicare alla specializzazione? Solo perché molti atleti di successo hanno iniziato la loro specializzazione nell’età dei “teen”, significa che tutti i giovani devono seguire il loro esempio?
Specializzazione, Diversificazione, e Iperspecializzazione
La Specializzazione richiede un investimento in un singolo sport attraverso un allenamento sistematico e competitivo, un impegno di partecipazione per tutto il corso dell’anno in quel determinato sport per perseguire con profitto e divertimento nell’attività prescelta. Il contrario della specializzazione è la diversificazione che è un investimento in una vasta gamma di sport e attività. Anche se si tende a vedere la specializzazione e la diversificazione in contrasto, come due categorie opposte, in realtà sono in sintonia tanto da poter stabilire il punto in cui gli atleti si devono specializzare o diversificare. (ved figura sotto)
Gradi di specializzazione sportiva
Fino a 14 anni nostra figlia praticava il calcio, tae kwon do, pallacanestro e pallavolo, prima di focalizzare solo su quest’ultima e fino a partecipare al programma di condizionamento della pallavolo durante tutto il corso del liceo. Ha fatto parte anche della banda musicale scolastica e all’Art Club. Quindi, possiamo dire che si è specializzata nella pallavolo, ma ha scelto di partecipare ad altre attività. Ci sono giovani atleti che tendono a preferire un determinato sport che praticano tutto l’anno alla ricerca di riconoscimenti e opportunità per salire di livello, mentre praticano altri sport nei periodi di riposo al solo fine di divertimento e passatempo.
Quindi, la nostra definizione di specializzazione si enfatizza con il limitare la focalizzazione e principale dedizione a uno sport come attività primaria, con la possibile continuazione di alcune attività complementari e secondarie. Studi nel merito hanno dimostrato che molti atleti di successo hanno ristretto la specializzazione al loro sport preferito, ma sono rimasti coinvolti in alcune altre attività per relax e passatempo durante l’off-season.
Tuttavia, una tendenza sempre crescente negli Stati Uniti va verso l’esclusiva specializzazione con l’abbandono delle altre attività, per dedicarsi ad allenarsi e competere in un unico sport per tutto l’anno. Spesso questa è un’imposizione da parte dei coach i quali, per un’ingiustificabile ragione, eliminano dal loro programma gli atleti che non abbandono gli altri sport e le altre attività. Per esempio, un coach di nostra conoscenza ha rifiutato il permesso a delle atlete di andare in vacanza con le loro famiglie per evitare che saltassero alcune sedute del programma di condizionamento che durava tutta l’estate.
L’esclusiva specializzazione ha contribuito all’epidemia di un numero sempre crescente d’infortuni negli ultimi vent’anni, privando ai giovani atleti i benefici di attività alternative durante l’off-season. Quindi, anche se la specializzazione intrinsecamente non è una cattiva idea, il modo restrittivo con cui viene interpretata da coach troppo zelanti ha portato a dei risultati negativi.
Il problema dell’iperspecializzazione
Quando l’esclusiva o l’intensità della specializzazione raggiunge il punto in cui il bambino accusa problemi fisici e mentali, allora diventa iperspecializzazione. L’iperspecializzazione occorre quando i bambini, spesso guidati da genitori o coach, perseguono esperienze e ricompense estrinseche in un unico sport durante tutto il corso dell’anno, sacrificando il loro sviluppo psicologico e benessere nonché la partecipazione ad altre attività comuni alla maggior parte dei loro coetanei.
Il titolo del libro di un’atleta famosa come Jennifer Sey la dice tutta: Chalked Up: Inside Elite Gymnastics’ Merciless Coaching, Overzealous Parents, Eating Disorders, and Elusive Olympic Dreams.
A 14 anni Dominique Moceanu è stata la più giovane componente della squadra di ginnastica Americana che vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1996. Il suo libro, Off Balance (2012), descrive l’esperienza di un’eccessiva e nauseante specializzazione di abusi emotivi e fisici, comprese l’ignorare e sottovalutare la probabilità d’infortuni.
Andre Agassi, nel suo libro autobiografico Open (2009), racconta gli abusi subiti dal padre quando era bambino: “Nessuno mi ha mai chiesto se volevo giocare a tennis, per non parlare poi diventare parte integrante della mia vita. Odio il tennis, lo odio con tutto me stesso, eppure l’ho dovuto praticare perché non avevo altra scelta. Rimprovero a mio padre di non avermi dato la possibilità di giocare al calcio con gli amici. Gridava sempre: “Sei un giocatore di tennis! Diventerai il numero uno al mondo! Guadagnerai tanti soldi! Quello è stato il suo desiderio, e quello è stato”.
Anche gli abusi emozionali sono stati ben documentati in altri sport giovanili (Gervis & Dunn, 2004; Kerr & Stirling, 2012; Stirling & Kerr, 2007). In questo tipo di abuso è racchiuso il deprezzamento, l’umiliazione, le minacce e la negazione di attenzione e sostegno; questa forma di abuso va ben oltre le presssanti insistenze utilizzate dai coach per spingere gli atleti nella loro formazione.
Con l’iperspecializzazione, gli adulti vanno oltre la linea di demarcazione, anteponendo al benessere dell’atleta l’ossessione del raggiungimento di obiettivi e ricompense estrinseche dello sport (es.: medaglie alle Olimpiadi, borse di studio per il college, o semplicemente la ricerca della vittoria ad ogni costo). Questa è definita razionalizzazione dello sport in cui il risultato della prestazione prende il predominio sull’essere umano che esegue la prestazione (Donnelly, 1993). Il genitore di un campione di nuoto ebbe a dire: “E’ stato difficile assistere a come l’esasperazione stava prendendo il sopravvento, ma una volta che cominciarono ad arrivare i risultati, fu difficile intuire che si stava creando danni nel lungo termine.” (Kerr & Stirling, 2012).
Un buco nell’acqua
The Marinovich Project è un film la cui trama racconta la storia di Todd Marionovich che è stato cresciuto dal padre in un ambiente super controllato con l’obiettivo di far diventare Todd il più grande quarterback di football di tutti i tempi. Il padre Marv dichiarò: “La domanda che mi sono posto è stata, “Quale può essere il risultato facendo crescere un ragazzo in un ambiente perfetto?“ Marv sottopose Todd a esercizi specializzati di stretching e flessibilità sin da quando era nella culla. Da bambino Todd mangiava solo verdure fresche bollite e continuò la dieta speciale durante tutto il periodo della crescita. Nei giorni in cui non andava a scuola, si allenava per quattro ore includendo, fitness, stretching, pesi, psicometria ed esercizi di tiro. Aveva un gruppo di specialisti scientifici che lo seguivano psicologicamente, biomedicalmente e mentalmente durante tutta la sua adolescenza.
Il suo talento naturale e gli allenamenti lo condussero a innumerevoli successi al liceo, dove nel 1987 stabilì un primato nazionale di 9.194 yard di passaggi e conquistò il titolo di Miglior Giocatore Liceale Nazionale dell’anno. Scelse di giocare a football all’University of Southern California, e pur avendo ancora tanto successo, fu sospeso diverse volte per aver trasgredito le regole. In seguito firmò per la squadra professionista della NFL Los Angeles Raiders, ma fu rilasciato dopo due anni. In seguito fu arrestato per l’uso di droghe e per anni fu additato come tossicodipendente. Il settimanale USA, Esquire, lo definì “l’uomo che non è mai esistito”, volendo significare che: “Todd non aveva mai avuto una vita. Lo sport aveva portato via i suoi primi vent’anni, la droga gli ha poi portato via altri venti”.
Nel film Marinovich si fa cenno circa il suo personale disagio ed educazione confessando che si sentiva un mostro. Ripensando a quando conquistò il posto da titolare con i Raiders, dichiarò: “Ho fatto quello che volevo, cioè accontentare mio padre. Ho fatto tutto quello che volevo, ed ero finito.” Todd ammette che l’uso della droga fu una fuga dall’intensità del mondo della super specializzazione.
Il nostro intento qui non è di volere denigrare Todd Marinovich, ma usare la sua storia come un esempio dei pericoli dell’iperspecializzazione.
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