Grazie all’attenta consultazione dei quotidiani dell’epoca possiamo affermare con certezza che la «fly rule» venne introdotta dalla NABBP alla convention annuale del 14 dicembre 1864, in cui la mozione fu finalmente adottata con 32 voti favorevoli e 19 contrari. La stagione del 1865 fu dunque la prima giocata con l’obbligo di eliminare i battitori necessariamente al volo.
Se ci siamo soffermati a lungo sull’introduzione della «fly rule» è perché dietro a quello che potrebbe apparire come un semplice e magari banale cambiamento regolamentare vi sono significati ben più importanti per l’evoluzione del gioco.
L’acceso dibattito che si scatenò attorno a questo tema fu infatti il più arroventato ed acceso focolaio di tensioni che scaldò il mondo del baseball, almeno fino all’emergere delle più annose questioni legate al professionismo: lo scontro sulla questione regolamentare mascherava infatti al suo interno la contrapposizione tra due diverse tendenze che si andarono cristallizzando proprio intorno alla fine degli anni ’50, due forze, due “etiche” antinomiche all’interno della “fratellanza del baseball” circa il modo di intendere, praticare ed organizzare il gioco.
Da un lato i “riformatori” («modernizers»), coloro che volevano accelerare il gioco per renderlo più spettacolare e più impegnativo; dall’altro i “tradizionalisti”, che avrebbero invece preferito mantenere il baseball ad un livello di gioco più basso, poiché un innalzamento delle richieste in termini di abilità fisiche avrebbe rischiato di estromettere dalla pratica coloro che non erano sufficientemente dotati per adeguarsi alle richieste di un gioco più “maschio”. Difatti, come si legge sulle colonne del Brooklyn Eagle, nella convention del 9 dicembre 1863, l’ultima in cui fu negata l’introduzione della «fly rule», quasi tutti coloro che si opponevano alla modifica regolamentare provenivano dai ranghi degli atleti più scarsi, i cosiddetti “muffins”.
Attraverso la rivalità fra i due “gruppi” si esprimeva quindi una contrapposizione che andava ben oltre la semplice preferenza per uno stile di gioco od un altro.
Così l’introduzione della «fly rule» ha un significato che va ben al di là della pur importante modifica al regolamento di gioco: è piuttosto uno dei gradini, una delle tappe sul cammino che avrebbe portato il baseball ad essere il gioco che è oggi, fatto di professionismo, enfasi sull’allenamento, necessità di ottenere a tutti i costi risultati positivi (non solo di natura strettamente sportiva).
Le squadre che intanto sorgevano alla fine degli anni ’50, e che man mano sarebbero entrate ad ingrossare le fila della NABBP, continuavano a formarsi come emanazione diretta del posto di lavoro: i club nascevano cioè prevalentemente «according to occupation», ossia conformemente alla professione svolta o al luogo di origine dei ballplayers. Venivano dunque alla luce squadre di baseball strettamente legate all’ambiente lavorativo.
«Le squadre di baseball - insomma - rappresentavano, in parte, una metamorfosi dei vecchi mestieri e delle rivalità etniche». Ma i punti di contatto tra work e play, tra gioco e sfera lavorativa, vanno ben oltre la comune appartenenza dei giocatori allo stesso ambiente di lavoro. Innanzitutto, anche se abbiamo evidenziato come le prime squadre di baseball fossero soprattutto dei «social clubs», il fatto che i membri di questi club praticassero una vasta gamma di attività sociali non significa che essi non prendessero seriamente il loro impegno sul diamante.
Oltre all’enfasi sull’allenamento e sulla disciplina, già i primi «baseball commentators» rilevano dunque come per innalzare il livello del gioco sia necessario giungere alla specializzazione dei ruoli, nonché ad un’equilibrata integrazione tra talento individuale dei singoli e stretta cooperazione all’interno della squadra.
Colpisce l’attenzione il fatto che i giornali sportivi dell’epoca, come il New York Clipper e lo Spirit of the Times, parlassero fin da subito del baseball mutuando il linguaggio dal mondo del lavoro, così come avevano già iniziato a fare nei resoconti dei primi violentissimi match di boxe fino ad allora disputati.
Del resto anche le singole partite venivano descritte usando metafore lavorative («to go into their work» o «to get down to their work» ad esempio erano le espressioni giornalistiche usate per descrivere i momenti in cui una squadra si rimboccava le maniche e iniziava a giocare “seriamente”); né gli stessi giocatori cercavano in alcun modo di “isolare” il proprio gioco dal linguaggio e dall’ideologia lavorativa, se è vero ad esempio che un club appena formatosi nel 1860 aveva scelto come motto ‘Hard Work and Victory’, il duro lavoro e la vittoria, un’espressione in cui non ci sono riferimenti ludici, nessuna traccia di leggerezza o casualità, nessuna allusione al divertimento o a benefici per la salute.
Giornalisti e reporter, in altre parole, mostravano poco interesse per gli aspetti meramente ludici, legati allo svago, andando invece alla ricerca di situazioni e caratteristiche mutuate dal workplace. Quando esaltavano o criticavano i giocatori e le squadre, più che far leva su immagini relative al piacere del gioco, utilizzavano piuttosto idee, concetti e formule solitamente impiegati negli ambienti di lavoro.
Seppur in questo preciso momento storico le competizioni tra squadre non sono ancora state istituzionalizzate in un regolare campionato, e seppure i ballplayers sono ancora degli amateurs, tuttavia il gioco è già praticato “seriamente”, con impegno e costanza.
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Tratto da A. Salvarezza, Eccezionale quel baseball! L'origine dell'isolazionismo americano negli sport, Dottorato di ricerca in critica storica giuridica ed economica dello sport (relatore: Adolfo Noto), ciclo XXII, Teramo 2009.
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