Ormai giunto sul punto di acquisire un carattere davvero “nazionale”, il baseball si trovò a dover fronteggiare gli eventi legati alla guerra di secessione americana. Questi certamente ne ostacolarono in qualche modo la crescita, se non altro sotto il profilo pratico; tuttavia il conflitto non fu in grado di arrestarne del tutto lo sviluppo, se è vero che subito dopo la fine della guerra il baseball si attestò insindacabilmente come il National Pastime americano per eccellenza.
Se ad esempio alle convention annuali degli anni di guerra parteciparono meno squadre rispetto al 1860, è pur vero che il loro numero rimase comunque sempre maggiore che alla riunione del 1858; e se la chiamata alle armi portò al fronte un gran numero di ballplayers, svuotando le fila dei club fino al punto di decretarne in alcuni casi lo scioglimento, quegli stessi ballplayers perseverarono nella pratica del gioco anche sotto le armi, magari su campi di fortuna, improvvisati, o persino in luoghi pericolosamente vicini alle fila nemiche.
Seppur in condizioni disagiate, poi, i civili rimasti a casa continuarono comunque a coltivare i propri svaghi e passatempi preferiti: e se certamente si prestava orecchio più alle notizie dal fronte che non a quanto accadeva sui diamanti, se non ci si poteva lasciare coinvolgere dal gioco con la stessa intensità di prima, e se anche si giocarono meno partite, peraltro con un tasso tecnico ridimensionato, eppure per tutta la durata del conflitto il baseball non abbandonò mai la vita e i pensieri degli Americani.
Quasi a controbilanciare i freni che ne ostacolarono la crescita nei meri aspetti pratici, su un piano ideale la guerra ebbe invece diverse conseguenze positive sul baseball e sull’immagine di esso agli occhi del pubblico americano.
Viste le stringenti necessità belliche, si iniziò in primis ad esaltare il valore della pratica sportiva come esercizio preparatorio alla dura vita militare, al rigore e alla disciplina da essa richiesta e ai requisiti necessari in termini di vigoria fisica per sostenere le fatiche di una guerra lunga, sanguinosa e cruenta.
Ma oltre che funzionale allo sviluppo del fisico e della muscolatura dei soldati, la pratica sportiva fu incoraggiata in tempo di guerra anche per gli effetti benefici che apportava in termini di svago e rilassatezza mentale, di palliativo contro la noia dei lunghi periodi di accampamento e non ultimo come fattore coesivo all’interno di compagnie e reggimenti.
Alcuni episodi di partite giocate nei campi di prigionia hanno fuorviato la primissima storiografia sul baseball, inducendola a dedurre che i Confederati appresero il gioco dai soldati dell’Unione fatti prigionieri; ma esistono numerose testimonianze che al sud si giocasse già prima dello scoppio della guerra. Una volta che il baseball prese ad irradiarsi e a diffondersi dal suo centro primigenio, New York, lo fece penetrando la nazione lungo tutte le possibili direttive di influenza: già prima dello scoppio delle ostilità la baseball fever aveva ormai innegabilmente contagiato milioni di Americani, come si evince dalla grande rilevanza che ebbe il trionfale tour dei Brooklyn Excelsiors del 1860 entusiasmando la nazione a tal punto da diffondere un forte spirito di emulazione.
Seppur a volte con mezzi di fortuna (usando palle e mazze improvvisate), o su superfici arrangiate alla meno peggio, è comunque certo che i soldati giocassero spessissimo durante la guerra, e non solo nei campi di prigionia; i più attivi furono certamente i reggimenti dell’Unione che provenivano da New York, che poterono così ulteriormente contribuire alla diffusione del “New York game”, ma si giocò anche secondo la versione Massachusetts o anche col più semplice townball a due sole basi; le partite potevano vedere di fronte squadre selezionate da compagnie dello stesso reggimento, oppure provenienti da reggimenti diversi, e in qualche caso la squadra di una compagnia che si sentisse particolarmente confident poteva sfidare un nine di giocatori selezionati fra tutti i soldati del reggimento.
A fare da contraltare alla passione con cui si continuò a giocare a baseball sotto le armi, abbiamo fatto cenno alle difficoltà pratiche incontrate dai ballplayers rimasti a casa, ove l’entusiasmo verso il gioco fu fisiologicamente danneggiato dalle maggiori attenzioni riservate alle notizie provenienti dal fronte. Non solo meno squadre presenziarono alle convention annuali della NABBP, ma molte di esse furono costrette a sciogliersi per la forzata assenza dei loro membri, e il numero degli incontri tra formazioni di primo rango diminuì drasticamente.
Tuttavia, nonostante queste evidenti avversità, il gioco non arrestò la sua crescita: lo dimostra la febbrile aspettativa per la stagione 1862, annunciata sulle pagine del Brooklyn Eagle come «a long and brilliant season», o il tour che nello stesso anno portò proprio gli Excelsiors di Brookyln a far breccia persino nel New England, culla del “Massachusetts Game”.
Fecero poi la loro comparsa proprio durante gli anni della guerra civile alcuni aspetti che non avrebbero più lasciato il baseball, come i primi episodi di professionismo sotto banco, di cui parleremo in seguito, o l’affermarsi definitivo della pratica di obbligare gli spettatori al pagamento di un prezzo d’ingresso per assistere alle partite.
Pur tra comprensibili ostacoli e difficoltà il baseball riuscì dunque a ben tollerare l’impatto della guerra, sicuramente in modo migliore rispetto a quanto fece il cricket. E anzi secondo una certa corrente storiografica fu proprio il propagarsi del conflitto a permettere al gioco di raggiungere quelle parti del paese presso cui non si era ancora diffuso.
Ad ogni modo la guerra non solo non impedì al baseball di diventare lo sport più amato d’America, ma contribuì anzi in modo rilevante a farne “lo sport” nazionale.
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Tratto da A. Salvarezza, Eccezionale quel baseball! L'origine dell'isolazionismo americano negli sport, Dottorato di ricerca in critica storica giuridica ed economica dello sport (relatore: Adolfo Noto), ciclo XXII, Teramo 2009.
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