In un modo che potrebbe sembrare paradossale, fu proprio il grande successo della NABBP a decretarne il rapido rovescio: una volta propagatosi con convinzione alle masse, il baseball aveva imboccato la via che lo avrebbe presto portato al professionismo. Se infatti «a game can remain amateur only as long as a privileged minority plays it as an aristocratic diversion» («un gioco può rimanere amateur solo se giocato da una minoranza privilegiata come svago aristocratico»), la grandissima diffusione del baseball apportò profondi cambiamenti all’antico spirito del gioco, poiché estendendosi ad altri luoghi geografici, e soprattutto ad altre classi sociali, questo sfuggì alle forze “fraternalistiche” dei primi club.
Attirando in breve tempo un numero sempre maggiore di Americani, con l’aumentare della pratica il gioco vide poi rapidamente innalzarsi il livello tecnico delle partite; e fu proprio l’avvento di sfide caratterizzate dall’alto livello tecnico e dalla grande competitività a portare all’ingresso del “dio denaro” nel gioco: i soldi comparvero solo quando le sfide iniziarono a caratterizzarsi per l’elevato livello tecnico della competizione. Non fu la possibilità di effettuare dei guadagni ad attirare le folle al gioco, e a portare ad una sempre più spiccata competitività; fu semmai vero il contrario, furono semmai il desiderio delle squadre di punta di schierare i giocatori migliori, nonché la volontà del pubblico di assistere a partite di alto livello, a causare il fragoroso ingresso del denaro nel mondo del baseball.
Infatti già dal 1860 Jim Creighton, il mitico pitcher tragicamente scomparso a soli ventuno anni in circostanze drammatiche, riceveva soldi sottobanco dai Brooklyn Excelsiors, che poterono così assicurarsene le prestazioni in totale violazione del regolamento della NABPP: Creighton va dunque considerato come il primo professionista della storia del gioco.
La pratica venne allo scoperto solo nel 1866, con le accuse rivolte ai Philadelphia Athletics circa la retribuzione di alcuni suoi tesserati (Pike, Dockney e McBride): il caso non ebbe però conseguenze giudiziarie, perché nessuno, né fra le fila degli accusatori, né tantomeno fra quelle degli accusati, si presentò di fronte alla Judiciary Committee.
A partire dagli anni della guerra civile si era intanto iniziata a diffondere la pratica di pagare i giocatori con salari giustificati formalmente da lavori che invece non svolgevano, limitandosi a giocare a baseball. L’esempio lampante del fiorire di questo tipo di sotterfugio è quello di William “Boss“ Tweed, uno dei maggiori finanziatori dei New York Mutuals (nonché membro più influente del Consiglio di Amministrazione, seppur non ricoprì mai ufficialmente la carica di Presidente), che dal 1860 al 1871 fece mettere i suoi giocatori a libro paga dalla stessa città di New York (!), fingendo che gli atleti fossero impegnati presso varie strutture municipali, soprattutto presso il dipartimento per la pulizia delle strade.
Inoltre dal 1864 le squadre più importanti di New York e Brooklyn avevano iniziato a beneficiare di una quota sugli incassi dei match giocati all’Union and Capitoline Grounds: da lì a poco si iniziò a giocare soprattutto per i «gate receipts» e le resistenze dei vecchi club di gentlemen (come i Knicks) furono di scarso impatto, perché il pubblico si era abituato in fretta a pagare per vedere giocare a baseball.
L’inizio del cosiddetto “enclosure movement”, ossia la pratica di recintare i campi da gioco e poi chiedere il pagamento di un biglietto per accedervi, ebbe un impatto fondamentale sul baseball, aprendo una nuova era nella storia del gioco e favorendo in modo cruciale l’avvento del professionismo: fu insomma decisivo per la disgregazione dell’atmosfera fraterna e tipicamente amateur dei primissimi anni.
I giornali non furono da meno nel contribuire ad alimentare il nuovo clima rovente che ruotava attorno al baseball, fomentando accese rivalità fra le squadre e ponendo sempre maggiore enfasi sul raggiungimento della vittoria. Curiosamente, fu la stampa ad iniziare a parlare apertamente di «professional clubs» fin dal 1867, anche se in teoria al tempo simili club non potevano né dovevano esistere all’interno dell’Associazione.
L’ansia per il successo (e per vedere aumentare gli incassi) portò i giocatori ad incrementare le ore dedicate a partite ed allenamenti, rendendo il loro investimento in termini di tempo talmente ampio da generare l’inevitabile conflitto con la sfera lavorativa.
Il baseball aveva quindi fatto ingresso in una “zona d’ombra” tra dilettantismo e professionismo, in pratica una sorta di semi-professionismo; soprattutto si era generata una profonda e irriducibile spaccatura tra pros e amateurs e si era dissolta irrimediabilmente l’atmosfera coesa, compatta e fraterna che aveva caratterizzato i primi anni del baseball organizzato.
Diversi erano gli escamotage in uso per aggirare il divieto formale di retribuire i giocatori (come ad esempio quello dei «social game», partite che venivano così definite per toglierle dal controllo dell’Associazione: questo naturalmente le invalidava ai fini del campionato, ma permetteva alle squadre di schierare giocatori pagati apertamente); ma soprattutto la possibilità per i ballplayers di cercare una remunerazione maggiore in altri club portò le squadre a condurre una ricerca incessante per assicurarsi le prestazione dei giocatori più quotati.
Nacque così il fenomeno del cosiddetto revolving: i giocatori cambiavano club non appena ricevevano un’offerta migliore, e la regola dei “trenta giorni” allora in atto (che prevedeva che un giocatore potesse scendere in campo per un club solo dopo che fossero passati trenta giorni di appartenenza ad esso) non era in grado di contrastare il fenomeno, né lo fu quando il probationary period, il periodo cuscinetto, fu innalzato a sessanta giorni.
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Tratto da A. Salvarezza, Eccezionale quel baseball! L'origine dell'isolazionismo americano negli sport, Dottorato di ricerca in critica storica giuridica ed economica dello sport (relatore: Adolfo Noto), ciclo XXII, Teramo 2009.
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