Già il nome dice molto: la NL era un’associazione di club, non di giocatori. Con essa la separazione tra manager/dirigenti e giocatori divenne netta e definitiva, come del resto chiarì da subito la costituzione di Bishop e Hulbert, adottata al termine di un’intensa giornata di confronti, affermando l’intenzione di proteggere e promuovere i «mutual interests» di club e giocatori: fino al 1876 l’interesse dei ballplayers era lo stesso delle squadre, club e giocatori erano una cosa sola e non c’era alcun bisogno di affermare la volontà di coniugare questi due interessi, poiché essi venivano a coincidere. La National League affermava invece esplicitamente l’esistenza di uno iato all’interno della “baseball fraternity”, di una scollatura che avrebbe presto portato ad una guerra di posizione frontale tra proprietari («capital») e giocatori («labor»): come avrebbe affermato Spalding: «The idea was as old as the hills; but its application to Base Ball had not yet been made. It was, in fact, the irreprensible conflict between Labor and Capital asserting itself under a new guise»
Certamente l’incapacità più volte dimostrata dai giocatori di saper conciliare gli aspetti sportivi del gioco con quelli finanziari ed economici fu tra i motivi che causarono questa separazione.
Ma se è vero che la sfera tecnica del gioco e quella amministrativa richiedevano capacità e know-how differenti, la spiegazione addotta da Spalding per giustificare l’accentramento operato dagli otto presidenti della National League appare quanto meno forzata: non è affatto credibile che il baseball fu strappato al controllo dei giocatori solo per permettere loro di concentrarsi esclusivamente sugli aspetti sportivi. È vero piuttosto che presidenti e proprietari dei club erano alla ricerca di soluzioni che dessero stabilità e continuità, e soprattutto permettessero di realizzare degli utili: non a caso uno degli interessi principali della NL era di tenere sotto controllo il mercato dei giocatori (che fino ad allora si era sostanzialmente mosso in condizioni di selvaggia libertà), al fine di poter gradualmente calmierare i salari.
Una delle riforme più significative fu dunque quella che impose ai movimenti dei giocatori una serie di restrizioni che tre anni più tardi sarebbero culminate nello strumento della reserve clause. Innanzitutto fu imposto a tutte le squadre di comunicare al Segretario della lega l’acquisizione di ogni singolo ballplayer: in questo modo l’ufficio della segreteria raccoglieva tutti i contratti dei giocatori, potendo così limitare fortemente il pericolo del revolving. I club furono lasciati liberi di trattare anche con giocatori sotto contratto con altre squadre della lega, purché l’accordo si riferisse ad un periodo successivo al termine degli obblighi contrattuali già intrapresi; fu introdotto però lo strumento fortemente coercitivo della blacklist, che impediva di tesserare giocatori che si fossero macchiati in passato della colpa di aver violato la costituzione della lega o il regolamento, o che fossero stati espulsi o cacciati da altre squadre.
La ferrea unione dei membri della NL permise ai club di giungere ad un assetto più compatto contro il potere di mercato fino a quel momento esercitato dai giocatori: il coltello dalla parte del manico era ormai scivolato inesorabilmente nelle mani dei proprietari, e ci sarebbe voluto addirittura un secolo perché i giocatori tornassero ad avere un certo peso nella negoziazione dei contratti.
In tempi piuttosto rapidi i giocatori avevano dunque perso l’enorme potere di controllo che fino ai primi anni settanta avevano esercitato sul baseball: un simile, repentino cambiamento va spiegato mettendo in luce diversi fattori.
In primo luogo, l’enorme potere di cui avevano goduto i ballplayers nei primi anni era dovuto ad una libertà di mercato individuale piuttosto che ad uno strumento di potere esercitato collettivamente: le negoziazioni dei contratti avvenivano quasi sempre individualmente (un sindacato dei giocatori non sarebbe stato creato che nel 1885), così all’inizio essi si limitarono ad “esercitare” la loro libertà, senza prendere alcuna misura per “proteggerla” o “organizzarla”.
Inoltre, fatte alcune eccezioni (Spalding, Harry Wright), essi non mostrarono l’acume necessario per misurarsi nella gestione del gioco su basi imprenditoriali; la mancanza diventò più grave quando l’ammontare dei salari divenne così alto da portare all’interno del gioco uomini d’affari ricchi e benestanti, esperti finanzieri che si dimostrarono avversari insormontabili per dei giocatori disorganizzati e troppo giovani per muoversi adeguatamente nel più ampio mondo dei contratti e delle corporazioni.
Ma altrettanto importanti furono i cambiamenti apportati dalla NL nell’assetto organizzativo e nella struttura della lega (talché da questo momento non si potrà più parlare di associazione, ma appunto di lega): l’affiliazione fu limitata a sole otto squadre, cui fu imposto un fee annuale di 100 $ (quindi decuplicato rispetto a quanto imposto fino all’anno prima dalla NAPBBP). Ai club fu inoltre assicurato il monopolio territoriale: nessun’altra squadra proveniente dalla stessa città poteva affiliarsi alla lega.
Per garantire un adeguato bacino di utenza, capace di permettere buoni incassi al botteghino, per entrare a far parte della National League le squadre dovevano provenire da città di almeno 75.000
abitanti. Teoricamente non vi erano restrizioni all’affiliazione di nuovi club, ma poiché il numero complessivo di squadre doveva restare di otto, sarebbe stato necessario che un club lasciasse
la lega per permettere un nuovo ingresso, il che su un piano pratico rendeva altamente difficile l’ingresso in campo di nuovi competitor.
Un’altra decisiva innovazione fu rappresentata dalla comparsa di uno schedule obbligatorio delle partite: ogni club doveva giocare dieci partite (cinque in casa e cinque fuori) contro le restanti sette squadre, per un totale di settanta match da disputarsi tra il 15 marzo e il 15 novembre. La squadra con più vittorie (o quella con meno sconfitte in caso di ugual numero di partite vinte) sarebbe stata proclamata campione e avrebbe conseguentemente ricevuto l’apposito pennant.
Va detto però che anche in questa prima stagione solo una squadra completò al 100% i propri impegni (Boston, ribattezzata “Red Caps” a partire dal 1876 per distinguerla dai “nuovi” Cincinnati Stockings, una franchigia creata ex novo che fu anch’essa tra le fondatrici della National League); persino la squadra vincitrice del titolo, Chicago, non giocò tutte e settanta le partite, ma pur con meno incontri giocati fu comunque capace di annumerare il maggior numero di vittorie.
Riguardo all’organizzazione interna, la National League era gestita da un “Board of Directors” di cinque membri che durava in carica un anno: composto secondo una curiosa procedura ad estrazione che sceglieva i cinque componenti, e fra essi il Presidente di Lega, il Board nominava poi un esterno al ruolo di Segretario, il quale svolgeva anche funzione di tesoriere.
Inoltre era l’unica struttura a poter sanzionare eventuali violazioni regolamentari da parte dei club e a poter dirimere controversie tra club e giocatori: le decisioni prese dal Board non potevano essere appellate in alcun modo ed erano dunque considerate definitive.
Nonostante i diversi richiami alla “democraticità” del baseball ripetutamente sbandierati dai proprietari delle franchigie o dai loro portavoce, è evidente che l’assetto del gioco sotto la neonata National League era invece fortemente anti-democratico: i giocatori non avevano un loro sindacato, né alcuna rappresentanza nel Board, e mancavano dunque totalmente di potere contrattuale nei confronti della lega.
Contrariamente al gioco “giocato”, che in effetti aveva nella sua struttura sintattica degli elementi “democratici” (che analizzeremo nel capitolo seguente), l’assetto imprenditoriale che fu raggiunto nel 1876 era invece ben lungi dai tradizionali valori americani di libera iniziativa individuale, mercato libero e competizione aperta.
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Tratto da A. Salvarezza, Eccezionale quel baseball! L'origine dell'isolazionismo americano negli sport, Dottorato di ricerca in critica storica giuridica ed economica dello sport (relatore: Adolfo Noto), ciclo XXII, Teramo 2009.
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