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Perché il baseball vinse sul cricket? - L'ipotesi nazionalista

Foto tratta da MLB.com

di Andrea Salvarezza

L’atteggiamento assunto nei confronti del cricket negli ex possedimenti dell’Impero britannico risentì fortemente dell’identificazione del gioco con la cultura inglese: se questa associazione lo rese senza dubbio attraente in molti ex paesi del Commonwealth, sia per coloro che avevano a cuore la madre patria, sia per coloro che si auguravano invece di poterla (almeno simbolicamente) sconfiggere, al tempo stesso può spiegarne il rigetto che si verificò in altre ex colonie. Un saggio uscito di recente ha messo a fuoco il ruolo giocato dal nazionalismo nell’indirizzare le culture sportive di India e Stati Uniti, in cui ad affermarsi come National Pastime furono rispettivamente cricket e baseball.

Secondo gli autori, in entrambi i casi i due sport furono recepiti e praticati dalle popolazioni indigene come termini di confronto nei riguardi dell’Impero, che dunque resterebbe il punto di riferimento obbligato in entrambe le situazioni. Ma se in America vi fu un forte desiderio di dissociare gli sport americani da quelli britannici, in nazioni come l’India, ove la dominazione dell’Impero fu più duratura, si affermo al contrario l’intenzione di appropriarsi di tali sport, e di addomesticarli con obiettivi di resistenza politica.

 

L’atteggiamento americano riguardo ai giochi imperiali fu opposto rispetto a quello indiano, ma in realtà le due reazioni sono accomunate dalla stessa motivazione nazionalistica, che si afferma nei due paesi in modo diametralmente opposto: in India il movimento nazionalista impone, alla fine dell’800, di adottare il cricket come mezzo non-violento per competere contro i dominatori inglesi. In America invece, ove l’indipendenza politica era già stata raggiunta, alla metà del 1800 il bisogno di un confronto non-violento era totalmente irrilevante; ma oltre a non sentire il bisogno di sconfiggerla simbolicamente, avendola già superata sul piano politico e militare, gli Americani non potevano neanche avere più a cuore la madre patria, nei confronti della quale sentivano piuttosto l’esigenza di separarsi, troncando tutte le possibili connessioni con l’Impero (ivi comprese quelle sportive) con lo scopo di enfatizzare un’identità americana indipendente. 

Del resto avevamo già visto nel capitolo terzo come il clima nazionalistico della metà del 1800 giocò un ruolo cruciale nella formazione della cultura sportiva statunitense: fu all’epoca della guerra civile che si venne a creare l’arena politica in cui si formò il sentimento nazionale americano.

 

Nella progressiva emancipazione dagli esempi e dai modelli stranieri, si venne a determinare anche un forte bisogno di avere un gioco nazionale considerato “proprio”.

 

Sebbene il   baseball ne condividesse l’origine, era tuttavia molto meno identificato con la cultura inglese di quanto non fosse il cricket, e per questo motivo fu “scelto”, adottato e poi modificato e perfezionato fino al punto da recidere ogni collegamento con la madre patria. Curiosamente, alcuni osservatori americani dell’epoca vedevano nel cricket  un terreno comune in grado di rinsaldare i (presunti) vincoli di fratellanza tra la vecchia Inghilterra e la Giovane America, e prefiguravano il momento in cui il gioco sarebbe stato

«adopted as one of our national sports, and form one of the connecting links of that bond of brotherhood which ought to exist between the sons of old England and Young America».

 

Ma fu proprio per evitare che quel vincolo di fratellanza sopravvivesse, che si arrivò al rigetto del cricket: piuttosto che conservarlo, gli Americani avevano tutta l’intenzione di negare quel legame, reciderlo e, se possibile, fare come se non fosse mai esistito.

I destini del cricket in America furono poi influenzati anche dal fatto che il gioco era comunque “controllato” dagli Inglesi, sia per quanto riguarda le posizioni istituzionali (dirigenti e membri dei club), che per il gioco in sé, poiché inglesi erano anche i giocatori migliori, i quali avevano la tendenza a monopolizzarne la pratica sia negli allenamenti che in partita, ove peraltro le regole di battuta permettevano ad un batsman esperto di poter restare in gioco per un tempo molto lungo, mentre i novizi venivano eliminati rapidamente.

 

Di contro il baseball, la cui sintassi prevede la continua alternanza dei giocatori al piatto, offriva a principianti e meno esperti più chance di imparare e progredire nel gioco. Inoltre l’usanza inglese di lasciare ai cricketers l’aperta possibilità di giocare per più club («multiple club memberships») riduceva ulteriormente le opportunità per gli Americani di cimentarsi in partite ufficiali. E poiché l’obiettivo primario dei partecipanti ad un gioco è appunto il “giocare”, il baseball ebbe un vantaggio decisivo sul cricket, poiché questi violava uno dei principi cardine di un buon «participatory sport», ossia quello di estendere il più possibile il lasso di tempo in cui i partecipanti sono impegnati attivamente.

 

Gli Americani, “chiusi” dagli Inglesi in uno sport come il cricket che già di suo limitava l’interazione dei giocatori, preferirono dunque il baseball anche perché la sua struttura (e la mancata presenza del monopolio tecnico degli Inglesi) lo rendevano più adatto ad avere successo come sport partecipativo. 

Se il nazionalismo culturale divenne più intenso nei 1850s, è anche perché gli Stati Uniti avvertivano ancora la mancanza di simboli di identità nazionale (intesa in  senso federale). Esisteva una bandiera, ma non ancora un inno nazionale ufficiale, poiché la canzone patriottica Star Spangled Banner sarebbe stata adottata ufficialmente dal Congresso come national anthem solo nel 1931; inoltre doveva  ancora svilupparsi un consenso in fatto di tradizioni nazionali (festività, miti popolari,  ecc).

 

Dietro all’enfasi eccessiva che fu posta sui progressi politici, economici e sociali, e sulla campagna condotta per lo sviluppo di un’arte e di una letteratura americane, si nascondeva un’ansia latente per la neonata nazione repubblicana, che sentiva una decisa volontà di affermare in ogni campo l’esistenza di una realtà nazionale autonoma.

 

Ma il concetto di nazionalismo, oltre ad implicare la necessità di distinguersi dal  resto del mondo, si articola anche attorno agli elementi che rendono “unita” una nazione: piuttosto che esserne solo un riflesso, il baseball è stato allora un fattore attivo nel processo di nazionalizzazione degli Stati Uniti d’America. In altre parole, l’eccezionalismo americano si è realizzato ed è stato pubblicamente portato a termine anche grazie al rigetto del cricket e all’”invenzione” del baseball come gioco capace di mostrare l’esistenza e l’autenticità della sovranità americana, finalmente sciolta dal giogo imperiale e dall’influenza britannica.

 

In una nazione caratterizzata dalla forte diversità etnica, razziale e religiosa, in cui non c’era monarchia né vera aristocrazia, e priva di una lunga tradizione storica, «the experience of playing, watching, and talking about baseball games became one of the nation’s great common denominators».

 

Il baseball fu un vero e proprio mito fondativo della neonata nazione federale. Al termine della guerra civile era entrato a far parte del substrato culturale della nazione su più livelli: come passatempo popolare giocato da adulti e ragazzi, come «spectator sport» capace di attrarre grandi folle di tifosi, come contenuto privilegiato dei periodici locali e nazionali, come professione e sotto forma di divertimento commercializzato in senso imprenditoriale, e infine come fonte di orgoglio nazionale.

 

Si possono dunque comprendere facilmente i motivi per cui nacque l’esigenza di “proteggerne” (ma sarebbe meglio dire inventarne) l’origine  interamente americana, spossessandolo dalla discendenza britannica. Fu così che si arrivò a concepire l’artificioso mito di Abner Doubleday e di Cooperstown, con cui il gioco, parafrasando il classico lavoro di Hobsbawm e Ranger, letteralmente “inventò” la propria tradizione.

 

Segue

 

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Tratto da A. Salvarezza, Eccezionale quel baseball! L'origine dell'isolazionismo americano negli sport, Dottorato di ricerca in critica storica giuridica ed economica dello sport (relatore: Adolfo Noto), ciclo XXII, Teramo 2009.

 

 

La Tesi di Andrea Salvarezza

 

 

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