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La tradizione inventata: il mito di Doubleday

di Andrea Salvarezza

Proviamo per un momento ad assumere i panni indossati da Spalding in quella primavera-estate del 1905: egli ha cercato per anni di far attecchire l’idea dell’origine “interamente americana” del baseball, formulando a tale scopo anche un’astrusa teoria secondo cui il gioco si sarebbe evoluto a partire dal primitivo one-old cat a tre partecipanti, con la progressiva aggiunta di giocatori fino ad arrivare ai nove d’ordinanza. Incapace di sradicare la ben più convincente tesi del rounders, da pochi mesi il magnate ha giocato la carta della commissione d’inchiesta, subito formatasi in stretta osservanza delle direttive  da lui stesso impartite.  Improvvisamente gli arriva tra le mani la testimonianza chiave, tanto attesa quanto insperata: Sullivan gli inoltra una lettera di tale Abner Graves, vecchio ingegnere minerario, che indica in Abner Doubleday l’uomo che ad un certo punto diede la forma moderna ed attuale al baseball.

Agli occhi di Spalding, il tutto fu come una manna dal cielo: il racconto di Graves era congruo con quanto da lui   stesso  ipotizzato,   conciliava   l’esigenza  di   attribuire  la nascita   del baseball all’ingegno americano, e soprattutto gli offriva un motivo di orgoglio e di vanto personale nella comune esperienza condivisa con Doubleday. Potevano esserci, in quel 1905, occhi ed orecchie più ricettivi di quelle di Spalding, per l’affermarsi di una simile teoria? La testimonianza più tangibile della connessione tra i due doveva comunque ancora arrivare, e venne alla luce quella stessa estate sulle colonne del bollettino settimanale ufficiale della Theosophical Society. 

Il 13 agosto, a circa quattro mesi dalla pubblicazione della testimonianza di Graves in Ohio, sul New Century Path (che veniva stampato a Point Loma, ad un tiro di schioppo dalla casa di Spalding) apparve un articolo su Abner Doubleday in cui tra gli altri meriti si ascriveva al Generale anche quello di aver inventato il baseball. Ma l’unica fonte dell’articolo,  di nuovo, era sempre la stessa testimonianza rilasciata da Graves al Beacon Journal, di cui vennero stralciati diversi passi pur senza mai citare il quotidiano dell’Ohio.

 

Poiché è da escludere che un giornale stampato a migliaia di chilometri di distanza potesse essersi diffuso fino in California, è chiaro che Spalding ebbe un coinvolgimento diretto nella stesura dell’articolo: lo stesso giorno, non a caso, egli mandò ben due lettere (una a Sullivan e l’altra a tale Albert Pratt, un vecchio ballplayer con cui Spalding era in contatto) in cui si premurava di segnalare la necessità di approfondire la ricostruzione fornita da Graves, accludendo ad entrambe le missive l’articolo biografico su Doubleday che era stato pubblicato lo stesso 13 agosto.

Il pezzo uscito sul New Century Path testimonia dunque in modo lampante l’esistenza del collegamento tra Spalding e Doubleday: e tale collegamento spiega perché il magnate americano appoggiò incondizionatamente e fin da subito la fantasiosa ricostruzione di Graves.

 

Che poi tale connessione non fu ulteriormente esplicitata non  deve stupire: i motivi personali di Spalding nel favorire la ricostruzione fornita da Graves non dovevano essere resi manifesti, perché gli altri membri della commissione, o in ultima istanza la stampa e l’opinione pubblica, avrebbero certamente dubitato della posizione di Spalding, il cui conflitto di interessi avrebbe destato un enorme scetticismo.

 

Con le modalità e le motivazioni sovra descritte, la “Spalding” Baseball Commission, nata con l’obiettivo di fare chiarezza da un punto di vista storiografico, finì dunque con lo sfornare una tesi assolutamente anti-storica, ma di grande appeal sotto il profilo commerciale: eppure il mito attecchì, e per un certo tempo l’America credé davvero che Cooperstown fosse la patria del baseball.

 

Poi la leggenda fu demolita,  già a partire dalla fine degli anni ’30, quindi a ridosso del falso centenario, ma le celebrazioni del 1939 andarono comunque in scena, e per lungo tempo la credenza popolare rimase fedele a questa ricostruzione artificiosa. Smontare la leggenda, comunque, fu piuttosto facile: oltre agli evidenti segnali che il baseball era stato giocato in America ben prima del fatidico 1839, vi è che Doubleday non poteva essere a Cooperstown nel 1839 o 1840, poiché in quegli anni era all’accademia militare di West Point; inoltre non esistono testimonianze o annotazioni contemporanee al Generale, né egli nomina mai il baseball nelle lettere in cui parla degli sport da lui praticati in gioventù.

 

Il suo nome compare associato al baseball per la prima volta solo durante i lavori della Commissione, nella testimonianza di Graves che peraltro fu resa quando egli aveva superato le settanta primavere, e a ben sessantasei anni di distanza dai fatti accaduti. Una prova del tutto impalpabile, che pure bastò perché il baseball inventasse la propria tradizione.

 

 

Andrea Salvarezza

 

 

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Tratto da A. Salvarezza, Eccezionale quel baseball! L'origine dell'isolazionismo americano negli sport, Dottorato di ricerca in critica storica giuridica ed economica dello sport (relatore: Adolfo Noto), ciclo XXII, Teramo 2009.

 

 

La Tesi di Andrea Salvarezza

 

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