Il baseball, fenomeno sociale e culturale fondamentale per la storia d'America

di Andrea Salvarezza

Oltre che eccezionali per aver adottato discipline sportive assolutamente peculiari, comunemente battezzate “sport americani”, gli Stati Uniti lo sono anche per il modo in cui hanno messo i loro sport (in particolare il baseball) al centro della propria vita culturale. Non sono molti i contesti in cui uno sport ha assunto una funzione così importante: a partire dagli anni ’60 dell’ottocento il baseball è stato un fenomeno sociale e culturale fondamentale per la storia d’America. Specialmente dopo l’avvento del professionismo, con cui la competizione divenne più intensa e il sistema di partite più regolato, il baseball svolse una funzione cruciale nell’appagare quel bisogno di appartenenza e quel senso di identità che negli Americani ardevano in modo particolarmente intenso.

Vista l’eccezionalità della situazione (un’incredibile mobilità geografica, il fatto di essere un paese nuovo, l’assenza di un’eredità aristocratica, di un rigido sistema di classi e di una chiesa di stato), furono soprattutto le squadre di baseball locali a definire il carattere delle singole comunità urbane, fornendo ai cittadini un senso di radicamento e memorie collettive condivise da conservare con affetto e attaccamento.

A favorire la connessione tra le squadre e le città/quartieri di riferimento, fu soprattutto la partigianeria delle frange più calde dei tifosi, che contribuì a far salire vertiginosamente il livello di eccitazione e di coinvolgimento all’interno degli stadi.

 

Più di quanto avrebbe mai fatto ogni altro sport americano, il baseball delle origini si basava su uno spiccato senso di «localism», inteso come appartenenza geografica e psicologica ad un luogo specifico e al tempo stesso come odio, avversione e competitività verso i luoghi “altri” da esso.

 

Un’esemplificazione concreta di questa contrapposizione legata all’appartenenza al  proprio territorio si  ha nel  fatto che    le squadre ricevettero fin da subito la denominazione di “home club” e “visiting club”, con la squadra in trasferta che andava a far visita al campo di proprietà dei padroni di casa (quasi tutte le squadre, già a partire dai primi anni, avevano infatti un proprio campo di riferimento).

 

Mentre quindi il baseball arrivò a svolgere un ruolo fondamentale per il rafforzamento del senso di identità e di appartenenza alle singole comunità urbane, il cricket scontò la mancata capacità di trovare appoggio e sostegno a livello locale: piuttosto che essere legati a particolari zone cittadine, o specifici ambienti di lavoro, i club di cricket avevano infatti un pubblico di riferimento trasversale,  geograficamente sparso, di persone provenienti dalle classi elevate.

 

Inoltre anche la multiple membership rendeva il cricket meno adatto a raccogliere i favori delle comunità locali, poiché la libertà lasciata ai cricketers di scendere  in campo tra le file di club diversi rendeva difficile l’identificazione tra giocatori, squadra e comunità di riferimento

A permettere quindi l’emergere del baseball anche come spettacolo, oltre che come pratica fisica, fu una somma di fattori: cambiamenti regolamentari, l’adozione di tattiche e strategie innovative, il comportamento aggressivo e disordinato delle  frange più facinorose, le rivalità tra i club, l’appartenenza “partigiana” alla propria squadra.

 

Il gioco divenne un’attrazione irresistibile per molti grazie alla sua natura di vivace e spontanea commistione di orgoglio individuale e fedeltà alla comunità.

 

Ma prima ancora che le squadre arrivassero ad incarnare un ruolo così cruciale all’interno delle comunità di cui erano espressione, il baseball aveva fatto breccia nel cuore e nella mente dei singoli individui che avevano iniziato a praticare il gioco con irriducibile entusiasmo.  

 

Il  grande  successo  del  gioco  come «professional-spectator sport» fu infatti soprattutto conseguenza della già enorme presa che aveva avuto sulle masse in quanto «participatory sport». C’era dunque “qualcosa”, nella dinamica del baseball giocato, che ne fece un’attrazione irresistibile per milioni di Americani. Di cosa poteva trattarsi?

 

Abbiamo sinora evidenziato alcune delle caratteristiche principali che ne permisero l’ascesa, soffermandoci su quelle maggiormente chiamate in ballo dalla storiografia; ma ci sono altre chiavi di lettura in grado di spiegare l’adozione di sport peculiarmente adatti alla natura e alla realtà della società americana.

 

Intorno al 1840, data spartiacque per l’evoluzione degli sport moderni nei due paesi, l’Inghilterra poteva vantare una lunga tradizione in fatto di giochi con la palla, che  da circa un secolo venivano praticati sia da giovani uomini che da maschi adulti; negli Stati Uniti invece queste attività divennero popolari solo molto più tardi, circa all’inizio del XIX secolo, restando prevalentemente un divertimento destinato a bambini e ragazzi.

Tra i fattori che in America impedirono lo sviluppo di una solida «ball-playing tradition» vi è la relativa debolezza di quella «ritualistic, traditional, and communal society» che invece in Inghilterra era stata la cornice in cui era fiorito questo tipo di attività.

 

Di nuovo, torna d’attualità il diverso contesto politico: l’assenza di un’aristocrazia terriera e del sistema feudale, che in Inghilterra avevano svolto un ruolo vitale per fornire una struttura di riferimento ai «ball games», portò gli Stati Uniti a sviluppare una diversa tradizione sportiva, in cui crebbero sport connessi con le attività utilitaristiche quotidiane dalla inequivocabile natura individuale. Il baseball è infatti l’unico sport che attribuisce un valore specifico preponderante alla prestazione individuale, a volte a prescindere dal risultato di squadra.

 

Un lanciatore può essere così bravo da non concedere alcuna valida agli avversari, lasciandoli a zero punti: ma se poi nell’ultimo inning, con la sua squadra in vantaggio, viene rilevato dal closer, può accadere che questi non sia all’altezza della situazione e permetta la rimonta avversaria. Oppure viceversa una squadra potrebbe vincere nonostante prestazioni oggettivamente scadenti di qualche suo componente.

 

Il fatto che si possa vincere o perdere sia sul piano individuale che su quello collettivo porta ad un sistema in cui successo e fallimento si articolano su due livelli: delle quattro configurazioni possibili, vi è una sola chance di completa affermazione, quella in cui coincidono il successo individuale e la vittoria della squadra, perché le altre tre ipotesi (successo individuale-sconfitta della squadra, fallimento individuale-vittoria della squadra, fallimento individuale-sconfitta della squadra) delineano comunque uno scenario di insuccesso.

 

Anche calcio o basket – si potrebbe obiettare – prevedono situazioni simili: un attaccante può siglare una tripletta senza che ciò eviti la sconfitta; un portiere può compiere decine di interventi prodigiosi per poi capitolare in una situazione in cui non poteva in alcun modo opporsi; oppure ad un giocatore di basket, anche il migliore di sempre, può capitare di segnare 63 punti e non vedere la propria squadra vincere. 

Ma le contingenze particolari appena descritte, sia nell’esempio del baseball che in quelli di basket e calcio, si segnalano per il loro carattere straordinario: sono situazioni limite, estremizzazioni.

 

Nel normale, ordinario svolgimento, nessuna disciplina sportiva permette di “isolare” i meriti della prestazione individuale come fa il baseball.

 

Qui si verifica addirittura, ad ogni incontro giocato, una situazione che agli occhi di un osservatore non americano (o comunque non alfabetizzato al linguaggio del baseball) ha del parossismo: ogni partita produce un duplice output, uno rappresentato dal risultato dell’incontro, con una squadra che vince e una che perde, l’altro espresso dall’indicazione del lanciatore “vincente” e di quello “perdente”, i cui criteri di selezione sono minuziosamente previsti dal regolamento ufficiale.

 

Esiste persino una classifica riservata che durante la stagione tiene conto delle partite vinte dai singoli giocatori: la peculiarità di questa situazione è evidente. Nessun appassionato si sognerebbe mai di dire che Maradona o Pelè hanno vinto in carriera un numero x di partite: al massimo si ricordano i 1,283 gol di Pelè, o le sue  tre affermazioni ottenute con il Brasile nel Campionato del Mondo.

 

 

Gli appassionati di baseball invece sanno che Cy Young ha vinto (individualmente) 511 partite, record assoluto nella storia delle Major Leagues. L’impatto che può avere il pitcher nel baseball è dunque enorme, al punto che le scommesse sportive sull’esito delle partite sono strettamente legate a questa variabile: i palinsesti dei bookmakers contengono sempre accanto al nome della squadra quello del lanciatore partente, e il fatto che sia poi davvero quel lanciatore ad iniziare la partita è talmente importante che qualora  vi siano delle variazioni, le scommesse vengono rimborsate, perché il match su cui si è scommesso, in pratica, “non esiste più”.

 

Se la prestazione individuale nel baseball ha assunto un simile rilievo è soprattutto perché la struttura sintattica ne permette una misurabilità oggettiva che è sconosciuta in altri sport (se non forse nel football): la divisione delle fasi di gioco (attacco e difesa) in due momenti completamente distinti l’uno dall’altro e l’estrema frammentarietà del tempo e dell’azione, soprattutto se paragonata all’azione  più lenta e continua di sport come il calcio, hanno fatto in modo che fin dai primordi vi fosse la possibilità di scevrare la prestazione individuale, “scorporandola” dall’esito complessivo  della  partita. E  questo  anche  prima  che  si  diffondesse  l’uso delle statistiche: vale a dire che tale aspetto era sentito dai praticanti del gioco anche prima che fosse reso oggettivo dai numeri.

 

 Segue

 

________________________________________________________________________

 

Tratto da A. Salvarezza, Eccezionale quel baseball! L'origine dell'isolazionismo americano negli sport, Dottorato di ricerca in critica storica giuridica ed economica dello sport (relatore: Adolfo Noto), ciclo XXII, Teramo 2009.

 

 

La Tesi di Andrea Salvarezza

 

Scrivi commento

Commenti: 0