Il successo del baseball: sport individuale giocato in un setting collettivo

Nella foto il Wrigley Field (Chicago) in una foto del 17 Luglio 1937
Nella foto il Wrigley Field (Chicago) in una foto del 17 Luglio 1937

Foto tratta da MLB.com

di Andrea Salvarezza

Il successo del baseball sembrerebbe quindi legato alla maggiore capacità di evidenziare ed esaltare il ruolo della prestazione individuale; del resto una simile impostazione sarebbe coerente con il frame culturale in cui il baseball si è affermato, poiché la Democrazia americana posta sotto la lente di ingrandimento da Tocqueville ha fra i suoi valori fondanti proprio quello dell’individualismo. Ma allora ancora maggiore popolarità avrebbero dovuto avere, nel panorama sportivo americano, discipline completamente individuali come il tennis, l’atletica o il nuoto. 

Ora, se gli Stati Uniti sono da sempre ai vertici tecnici in tutte e tre le discipline, in cui hanno mietuto successi strepitosi, nessuna di esse ha però mai neanche lontanamente raggiunto la popolarità del baseball.

 

La mera esaltazione del raggiungimento individuale, allora, non sembra sufficiente a spiegare l’enorme fascino che le dinamiche in scena sul diamante hanno esercitato sull’animo di milioni di Americani: piuttosto è probabile che il “segreto” di un simile successo stia nella capacità di conciliare un valore così centrale, l’individualismo, con un altro principio cardine della società americana, ossia la diffusa tendenza all’associazionismo. 

 

Un contrasto apparentemente irriducibile, quello tra individualismo ed associazionismo, le cui presunte contraddizioni vengono in realtà “sciolte” da Tocqueville nelle splendide pagine giustapposte dedicate dal francese a questi due aspetti così preponderanti nella vita della neonata nazione americana.

Anziché configurarsi come rifiuto della società in sé, o come negazione della necessità di un’organizzazione sociale, l’individualismo vede piuttosto la realtà empirica dei singoli individui come il risultato dell’ambiente culturale che li precede e che contribuisce a plasmarli.

 

Semplicemente  però  l’individuo  non  è  visto  come  il  «”prodotto”  passivo  di  tali determinazioni», ossia come «niente altro che un “animale sociale”»: egli è anzi postulato come un soggetto attivo, capace di «cooperare liberamente con i propri simili e soprattutto con coloro che ha scelto».

 

Lungi dall’essere contrapposte all’individualismo, le libere associazioni si configurano allora come il rimedio principale in grado di favorire la ricomposizione sociale: la «scienza dell’associazione», avverte Tocqueville, è la «scienza madre» dei paesi democratici.

 

E questo tanto più in un paese come l’America del diciannovesimo secolo, ove secondo l’impostazione dei principi del 1776 la funzione dello Stato doveva essere ridotta al minimo: qui la tendenza all’associazionismo rispondeva ad una vera e propria logica di «integrazione comunitaria», in cui le associazioni servivano a colmare lo iato creatosi tra l’individuo democratico e lo stato.

 

In questa prospettiva il baseball avrebbe aiutato a superare «the seeming irreconcilability of American individualism and a communal sensibility»: ma in che modo esattamente? 

Certamente l’associazionismo volontario del diciannovesimo secolo, di cui la formazione di club di baseball fu espressione, «always mixed communal loyalty with instrumental and self-interest objectives» Ma è proprio sotto il profilo della sintassi di gioco che il baseball era soprattutto adatto a conciliare i valori associativi/corporativi con il tipico individualismo americano.

 

Esso è infatti un gioco altamente individualistico, in cui le situazioni che prevedono un’interazione tra compagni di squadra sono occasionali e legate a momenti specifici della partita; inoltre tali situazioni vedono difficilmente coinvolti più di due o tre giocatori per volta.

 

Il contributo apportato dal singolo è quasi del tutto indipendente dalle prestazioni fornite dai compagni di squadra: per dirla con Pasolini, il fonema base su cui è impostato il linguaggio del baseball è il singolo individuo. 

 

E questo non tanto o non solo perché nella maggior parte dei casi questi “gioca” da solo contro l’intera squadra avversaria, quanto per il fatto che egli è di volta in volta il vero ed unico responsabile del suo destino: a differenza ad esempio del football, che pure permette un’ampia misurabilità della prestazione individuale, nel baseball lo svolgimento complessivo del gioco dipende interamente dalle decisioni prese dal singolo componente della squadra.

 

Il football basa il suo svolgimento su una serie di sforzi collettivi (i blocchi dei compagni di squadra che liberano spazio per la corsa del runningback, la protezione offerta dalla linea di attacco al quarterback per dargli il tempo necessario a selezionare un ricevitore libero, ecc), quindi non individuali, che sono per di più eseguiti sotto la stretta supervisione di un allenatore capo che ha il compito di chiamare gli schemi: è evidente come un simile assetto tenda a sminuire  la responsabilità del giocatore, perché egli di fatto è solo un esecutore.

 

Può certamente concordare le strategie con l’allenatore, come infatti il quarterback, per il ruolo centrale che riveste nella guida tecnica della squadra, fa spesso: non è quindi un automa schiavizzato, può suggerire all’allenatore la strada da seguire, ma in ultima istanza diventa solamente il soggetto scelto per mettere in pratica lo schema chiamato.

 

In casi particolari lo stesso quarterback può assumersi la responsabilità di cambiare la strategia in corsa, come avviene quando si trova sulla linea di scrimmage e osservando lo schieramento avversario si accorge che la difesa ha “letto” l’attacco: ma si tratta di occasioni sporadiche, eccezioni che confermano la regola. 

Nella foto gara 3 delle World Series del 1960 allo Yankee Stadium, 8 Ottobre  1960
Nella foto gara 3 delle World Series del 1960 allo Yankee Stadium, 8 Ottobre 1960

Nel baseball invece il singolo individuo decide da sé ogni singola mossa da eseguire, ed è dunque l’unico responsabile della propria prestazione.

 

L’output di una partita di baseball, il risultato raggiunto nell’insieme dai componenti di un team, è quindi sostanzialmente equivalente alla somma delle singole performance dei giocatori,  le  quali  a  loro  volta  sono  impostate  su  una  sfida  che  è  di  nuovo  tra individuo e individuo «pitcher versus batter».

 

Certamente resta un gioco di squadra, finalizzato sull’obiettivo di vincere come collettivo, per cui in alcuni casi particolari può accadere che il singolo si sacrifichi per permettere ad un compagno di correre a casa base; ma nel complesso è uno sport individuale giocato in un setting collettivo. Era dunque uno sport più “democratico”, più idoneo ad essere adottato dalla prima, vera democrazia del mondo? Per i risvolti appena esaminati, per la capacità espressa dalla dinamica del gioco di mediare tra istanze individualistiche e tendenze cooperativistiche, sicuramente sì.

 

Altra cosa sono i risvolti istituzionali, come la contrapposizione frontale tra proprietari e giocatori che per circa un secolo ha assunto le sembianze di un rapporto quasi schiavistico: certamente in essa vi era ben poco di democratico. Ma il valore simbolico del baseball come sport adatto ad una democrazia è insito nel gioco stesso, nelle dinamiche che hanno luogo sul diamante, quindi a prescindere dal contesto sociale, politico, economico-imprenditoriale.

Il presidente Woodrow Wilson al lancio della prima palla nel 1916
Il presidente Woodrow Wilson al lancio della prima palla nel 1916

La democrazia, insita nei più intimi aspetti della società americana, ne diventa (e Tocqueville lo sa bene, visto che quasi tutto il Libro Secondo della Démocratie è dedicato all’influsso del regime democratico sulla vita civile) la struttura portante, arrivando ad incidere sull’intelletto, sulla mente, sui costumi.

 

Ma la democrazia si pone come fondamento psicologico della stessa mentalità americana: la forma mentis dei cittadini si conforma cioè alle strutture sociali democratiche, che portano i cittadini stessi a maturare nel profondo, nell’inconscio, un approccio nuovo, diverso.

 

Ne nasce allora un uomo nuovo: è l’uomo democratico, che esprime anche  nella scelta dei suoi pastimes, tocquevillianamente, lo “stato sociale democratico dello sport”. E il principio democratico, espresso nella sintassi del baseball, è al tempo stesso rinforzato e corroborato dalla dinamica ludica.

 

Se come sostiene il grande pensatore francese, delle: «tre grandi cause [che] servono indubbiamente a regolare e a dirigere la democrazia americana […] le cause fisiche vi contribuiscono meno delle leggi, e le leggi meno dei costumi»il baseball, in quanto “costume”, è stato allora uno degli strumenti con cui gli Stati Uniti d’America hanno ribadito a sé stessi e al mondo la forza e la vitalità del regime democratico.

 

Segue

 

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Tratto da A. Salvarezza, Eccezionale quel baseball! L'origine dell'isolazionismo americano negli sport, Dottorato di ricerca in critica storica giuridica ed economica dello sport (relatore: Adolfo Noto), ciclo XXII, Teramo 2009.

 

 

La Tesi di Andrea Salvarezza

 

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