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La storia del conteggio dei lanci - 1^ parte

Il disegno è di Marco Cibola per il New York Times
Il disegno è di Marco Cibola per il New York Times

di Frankie Russo

libera traduzione dal New York Times

con la presentazione di Paolo Castagnini 

Contare i lanci di un lanciatore è un'attività piuttosto recente sia in Italia che nelle nazioni più evolute, Stati Uniti in testa. Mi riferisco in particolare al mondo giovanile particolarmente esposto alla problematica dei danni provocati da sovra-sforzo in legamenti e cartilagini non ancora formate. Ogni anno il problema riaffiora sia in Italia che in ogni parte del mondo. Ogni pitching coach ha un'opinione su quanti e quali siano i lanci che preservino l'integrità dei ragazzi, ma spesso queste opinioni non coincidono. Se aggiungiamo poi il riposo, il problema si complica ancor di più. Come sempre chi ci viene incontro è la scienza anche se in questo caso non potrà mai essere esatta, ma ci può aiutare molto. L'articolo, che ho deciso di suddividere in tre parti, con libera traduzione del nostro Frankie Russo, è del 2009 ed è apparso sul New York Times. Anche se sette anni sembrano molti in realtà è attualissimo. Ho scelto questo disegno di Marco Cibola, noto illustratore dal nome italianissimo, ma nato e cresciuto in Canada, perché mi piace interpretare l'immagine del grande e sicuro allenatore vicino ad un desolato giovane e piccolo lanciatore. Mi sembra che il disegno sia perfetto per l'articolo in oggetto. Buona lettura!

Il lanciatore e i suoi dolori

 

Sono molti i lanciatori, purtroppo, che continuano a lanciare nonostante accusino dolori al braccio, alla spalla o al gomito.

Alden Manning cominciò ad accusare dolori al gomito nel 2008 quando aveva ancora 14 anni.  Lanciava per 5/6 riprese per poi risentire dolore in prossimità del gomito. Il padre, sotto la guida di uno specialista, lo curava con creme e pomate varie.  Il dolore rappresentava un vero problema per Alden poiché giocava per quattro diverse squadre nell’arco dell’intera stagione. Quell’anno accusò un po’ più di dolore, ma dopo alcuni giorni era pronto a lanciare di nuovo, anche se persisteva ancora un leggero indolenzimento.

 

La prima volta che il dolore veramente lo infastidì, fu in occasione della gara di campionato scolastico contro i rivali dell’ E.B. Aycock, una squadra che la sua C.M. Eppes non sconfiggeva da otto anni. Era l’ultimo anno al Greenville High School per Alden e aveva un grande desiderio di sconfiggere finalmente Aycock, così come il suo coach Dally Danny, il quale aveva un record  0-16 contro di loro. Dello stesso parere era anche Ken Manning, padre di Alden, il più fervido dei tifosi dell’Eppes High School. 

Quel pomeriggio Alden lanciò sei riprese alla grande per un totale di 80/90 lanci che rappresentava il suo standard. In vantaggio per 5-1 e con solo 3 eliminazioni rimanenti, Dally ritenne opportuno sostituire Alden e schierarlo come interbase.

 

Il rilievo si trovò immediatamente nei pasticci concedendo due punti e riempiendo le basi con un solo eliminato. Ken Manning corse giù dalle tribune, e avvicinandosi a Dally suggerì di far tornare sul monte Alden per chiudere la gara. Tentennante, Danny accettò poiché neanche lui voleva privare la squadra di una vittoria storica. Alden effettuò altri 15 lanci e salvò il risultato, ma una volta a casa il dolore divenne insopportabile, il braccio faceva male solo a muoverlo. 

 

Ciononostante dopo 10 giorni Alden tornò a lanciare, ma a metà gara fece una cosa con non aveva mai fatto prima: chiese di essere sostituito a causa del forte dolore. Dally lo schierò in seconda base per evitare tiri lunghi e Alden non protestò, ma una volta a casa confessò al padre che sperava che nessuno battesse dalla sua parte perché se fosse successo non sarebbe stato in grado nemmeno di tirare in prima.

 

Più avanti nella stagione, Alden stava tenendo lezioni di battuta con il suo istruttore privato Mike Mullis, ex coach di college e part-time scout per i San Francisco Giants. Mullis era a conoscenza dei dolori di Alden e quando seppe che avrebbe lanciato di nuovo contro Aycock, oltretutto con corto riposo, espresse la sua contrarietà. Ken Manning rimarcò che la gara era importante per la vittoria finale del campionato scolastico al che Mullis rispose che per nessuna ragione al mondo, nemmeno per la vittoria di un campionato scolastico, valeva la pena di compromettere una  possibile brillante carriera.

 

Sulla strada di ritorno a casa, padre e figlio discussero la situazione. Ken era stato un discreto giocatore al college e le sue speranze erano che il figlio potesse fare di meglio. Allo stesso tempo Alden voleva lanciare e disse che il braccio non gli faceva male. La madre di Alden al contrario non era convinta e preoccupata scrisse una mail a Dally chiedendo di limitare l’utilizzo del figlio.

 

Dally, che aveva allenato a livello di high school per 15 anni, prestava molta attenzione alle preoccupazioni dei genitori pertanto prese la richiesta di Sharon molto sul serio e consultò molti siti internet relativi al conteggio dei lanci e tempi di recupero. Interpellò anche il capo allenatore che  avrebbe allenato Alden l’anno successivo al livello superiore. Le ricerche indicarono diverse soluzioni, ma alla fine Dally si convinse che il braccio di Alden non sarebbe stato a rischio se utilizzato secondo il suo standard informandone Sharon.

 

Tre giorni dopo, Alden lanciò una gara completa vincendo contro Aycock ed Eppes vinse il campionato. Quella sera Ken Manning fasciò il braccio del figlio e notò che era duro come un mattone. 

Alden continuò a lanciare in un altro campionato fino a quando il dolore fu tale da essere schierato in terza base pur di stare in campo.

 

A settembre finì in sala operatoria a seguito dello strappo dall’osso del legamento collaterale ulnare, conseguenza di aver lanciato troppo in situazioni di affaticamento e con inadeguato riposo. In poche parole si trattava del Tommy John surgery e Alden rimase lontano dai campi per otto mesi, impossibilitato a lanciare per circa un anno.

 

Dally fu sconvolto nell’apprendere la notizia, aveva fatto di tutto per proteggere il ragazzo, aveva seguito le istruzioni apprese da internet, riposo appropriato (un’ora per ogni lancio effettuato), ma alla fine  non seppe decidere cosa era giusto e cosa era sbagliato. Lo stesso dicasi per Ken Manning; l’ultima cosa che avrebbe voluto vedere era il figlio infortunato.

 

Adesso era costretto due volte la settimana a sottoporsi a specifica terapia. L’unico a non sembrare essere preoccupato era Alden stesso che aveva solo il desiderio di tornare a giocare. Il chirurgo che operò Alden, da lì a poco ebbe occasione di incontrare James Andrews, eminente ortopedico nazionale dello sport, il quale gli riferì che già nel mese di maggio aveva eseguito due operazioni del genere. Per oltre tre decadi, Andrews si era fatto la fama e la fortuna riparando le braccia di molte stelle del firmamento del baseball professionistico tra cui Roger Clemens, John Smoltz, Steve Carlton, Chris Carpenter, solo per nominare alcuni.

 

Andrews aveva anche notato che negli ultimi dieci anni il numero di giovani sottoposti ad interventi chirurgici era in netto aumento. Tra il 2002 e 2003 aveva operato almeno 13 adolescenti, nei sei anni successivi gli interventi erano arrivati a 241. Il numero di Tommy John surgery era incrementato in modo drastico: 9 dal 1995 al 1998, circa 65 nei quattro anni successivi, 224 dal 2003 al 2008. Altri chirurghi attraverso gli States descrissero il fenomeno come un’epidemia. Inizialmente l’intervento era riservato agli atleti professionisti, i più anziani, ma adesso si stava verificando il contrario, e così Andrews ritenne che in un modo o nell’altro bisognava correre ai ripari.

 

Andrews nutriva una profonda simpatia per giovani atleti che purtroppo erano stati costretti a interrompere la carriera, egli stesso ne fu vittima delle circostanze. Andrews era un buon atleta, ma quando morì il padre a 43 anni,  fu costretto ad abbandonare lo sport per dedicarsi agli studi e si specializzò in medicina sportiva per restare connesso con il mondo dello sport. 

 

Nel 1973 Andrews entrò a far parte del gruppo medico di Jack Hughston che  all’epoca era considerato un guru della medicina sportiva. Il gruppo si dedicava prevalentemente al livello professionistico e di college, ma nello stesso tempo Hughston voleva che un gruppo di collaboratori si dedicasse al settore giovanile. Fu allora che Andrews constatò che erano i giovani ad essere maggiormente soggetti a infortuni ed era lì che bisognava intervenire. I giovani da soli non sono in grado di realizzare quanto gli infortuni possano influire sulla loro carriera, e sono proprio loro che devono essere protetti. 

 

Nel 1986 Andrews creò un gruppo simile a quello di Hughston, ma in più volle dedicarsi allo studio delle cause degli infortuni e come prevenirli. Fondò l’American Sports Medicine Institute (ASMI) nel 1987, e a metà degli anni 90 rilevò che il numero degli infortuni occorsi ai giovani erano in continuo aumento e la cosa lo preoccupava non poco. Insieme al suo staff rilevò che erano i migliori lanciatori ad infortunarsi maggiormente, coloro che erano sottoposti a ritmi stressanti e che lanciavano troppo.

Bisognava accertare le cause e trovare il modo di prevenire. 

 

Segue

 

Frankie Russo

 

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Commenti: 3
  • #1

    Franco Ludovisi (lunedì, 16 gennaio 2017 21:02)

    Al campo delle Calze Verdi stiamo per giocarci la partita della salvezza dalla retrocessione contro la squadra locale.
    Siamo i favoriti: con Martelli (Roberto Martelli – “Betulla”) sul monte siamo imbattibili.
    Ci troviamo a lottare per non retrocedere perché quell’anno siamo stati promossi dalla serie C direttamente alla A/2 e stiamo facendo un po’ di fatica a saltare una intera serie.
    Ma con Betulla sul monte non ce n’è per nessuno, ne sono certissimo.
    Roberto, nel pre partita, si scalda poi viene da me e mi dice:
    “Ho male al braccio”.
    “Prova ancora qualche lancio e vediamo se è qualcosa di passeggero” gli dico.
    Lui prova, ma il braccio continua a fargli male.
    Mi rassegno e lo sostituisco.
    Era impensabile che Bet accusasse un malanno per non giocare:
    più la gara era difficile, più l’avversario duro, più le condizioni erano sfavorevoli più era intensa la sua voglia di combattere.
    Se un avversario lo batteva per una facile presa al volo Roberto si arrabbiava con se stesso per non aver fatto il kappa.
    Questo era Bet.
    Ma senza di lui non possiamo vincere, perdiamo e veniamo retrocessi.
    Che però non è una grande tragedia perché è come se avessimo partecipato alla B e ci fossimo rimasti: non sarebbe stata male neppure questa soluzione per una neopromossa.
    Ma il Presidente Bondi è furioso, i supporter mi sono tutti contro per il mancato utilizzo di Bet e sapere che lui aveva male al braccio non li convince:
    doveva giocare.
    Sono sicuro di non aver sbagliato con quella decisione:
    Betulla, dopo altri sette anni di serie minori e altri undici in campionati di massima serie concluderà la sua bella carriera lanciando sempre ad alto livello.

    Che c’entri qualcosa non averlo utilizzato in condizioni precarie?



  • #2

    PAOLO CASTAGNINI (martedì, 17 gennaio 2017 08:48)

    Grazie della tua testimonianza Franco. Sei stato un ottimo esempio di ciò che deve scegliere un allenatore.

  • #3

    Frankie (martedì, 17 gennaio 2017 09:13)

    Complimenti Franco, hai seguito alla lettera quanto riportato nell'articolo da Mike Mullis: Per nessuna ragione al mondo, nemmeno per la vittoria di un campionato [scolastico], vale la pena di compromettere una possibile brillante carriera. Grazie per la partecipazione.