Per Alessandro Maestri, con in ricezione il polivalente Elio, allontanato per un attimo dalle sue Storie Tese come incisivo catcher dai chiari messaggi, soffermarsi a scrivere il suo libro a quattro mani “Mi Chiamavano Maesutori” deve essere stato il più amato lancio strike partito dal suo formidabile braccio, se non il più difficile da eseguire pur in circostanze di “Zeniano” calmo abbandono. Ma la lettura del libro non è, come apparentemente sembra, una comune biografia quanto invece una coinvolgente e precisa testimonianza di intime vicissitudini, manipolatrici delle sue scelte, e di equilibrate considerazioni snocciolate a seguito di eventi che lo hanno visto protagonista.
Così, a partire da ragazzo dall’alveo dei Falcons che usavano volare in quel di Rivabella sotto l’ala protettrice di Luigi Bellavista, il falchetto Alessandro irrobustisce le sue ali e spicca con determinazione, giusta scelta, volontà e capacità il volo verso il lontano limite dei suoi sogni: giocare a Baseball sul grande teatro della Major League statunitense. Il racconto diventa cammino e compagno di viaggio del lettore che intuisce come a volte sfumano i colori dell’arcobaleno proprio là come se venisse citata di continuo l’armonia di una lontana canzona di Earl Grant: “At the end of a rainbow / you’ll find a pot of gold/ at the end…”.
Maestri allora racconta con un suo linguaggio privo di remora alcuna il tonificante metodo di un continuo allenamento che sopravanza il fisico per divenire mentale a tutto tondo per aprirgli finalmente l’uscio del grande teatro pur se ancora da comparsa primaria. Plana così nel 2006 nella multiforme organizzazione dei Chicago Cubs con la sua prima sessione di allenamento in quel di Tigertown e, con la piena consapevolezza di essere sempre continuamente sotto valutazione, fa tesoro dei suggerimenti e di quanto necessita. Incomincia allora a giocare da “professionista” nelle minor ma dopo tre anni senza mai essere tagliato riuscirà a sentire il 16 marzo del 2008 l’odore dell’erba fresca tagliata sui diamanti della major league con la casacca dei Chicago Cubs.
Una breve inebriante apparizione pur se in gare di pre-campionato. Purtroppo poi nel 2010, dopo essersi fregiato della medaglia di bronzo con la nazionale italiana nel World Baseball Classic 2009, poiché Alessandro tra le altre incombenze sempre era stato chiamato a vestire con orgoglio la maglia azzurra, il cambio di rinnovati responsabili del settore tecnico con la sintetica enunciazione tutta americana che “il baseball è una questione di numeri”, che dimentica di fatto il calore affettivo del cuore, si trovò fuori dalla casa dei Cubs.
Il sogno sembrò arrivare all’alba quando invece inaspettata gli si apre un nuovo uscio, quello del baseball australiano. Un ripiego? No, una ulteriore sfida alla sorte per chi non vuole fermarsi e che inaspettatamente gli servirà quale scenario per essere richiesto nel successivo anno da una squadra giapponese: i Kagawa Olive Guyners.
Un mondo nuovo quello giapponese dove il baseball, privo dell’ampollosità stravagante statunitense, si uniforma alla disciplina ed all’etica della vitalità filosofica dei Samurai. Il nuovo ambiente cambia totalmente l’approccio al gioco da parte di Maestri.
Qui si sublima, concretizza la sua personalità e viene poi chiamato a rivestire la casacca degli Orix Buffaloes debuttando alla grande nella Major League Nipponica. Il pubblico lo apprezza e lo stima ed il suo cognome letto in giapponese viene apostrofato in “Maesutori san”. La terra dei Samurai lo affascina, il suo contratto sale vertiginosamente, incontra la donna della sua vita fino, dopo tre anni e mezzo di “Big in Japan”, a scuotere finalmente ma senza traumi la fine dell’arcobaleno per via di particolari scelte nazionali ed organizzative programmate dalla società.
Da allora per Alessandro, che ha citato più volte nella stesura anche la sorte del suo alter ego Alex Liddi, ci sono state brevi apparizioni nella massima lega in Korea e nella lega messicana fino al ritorno poi sentito dei colori del San Marino. Da qui l’ultima scelta di dire addio al baseball…almeno quello giocato.
Una lunga testimonianza quella di Maestri dunque che affascina per i risvolti passionali e per i doverosi giudizi espressi verso chi lo ha guidato ed aiutato a rendere reale un sogno, questo sogno che ora i tanti giovani giocatori italiani hanno, ma che è anche lo sprone verso chiunque desidera realizzarsi poiché è importante immergersi nella filosofia di Charlie Brown quando sintetizza che in fondo “la vita è una partita di baseball” e che proprio come la vita il baseball dà e toglie.
Michele Dodde
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