tratto da totallytigers.com
Vi sono società che preferiscono formare il roster con un’abbondanza di super star, giocatori che finiscono per focalizzare tutto sul proprio ego e questo gli permette di divenire giocatori di elite. Ma è sempre una soluzione vincente? E’ questo il motivo per cui queste squadre per anni lottano per entrare nei playoff e finiscono senza raggiungere l’obiettivo delle World Series? Questi giocatori spesso vincono trofei personali, Cy Young Awards, Migliore Battitore, ma la squadra? Nisba! Queste squadre non trovano armonia nello spogliatoio dove vige “Ognuno per se, Dio per tutti” invece del “Uno per tutti, tutti per Uno!” Un detto americano recita che “In Team non c’è la ”I” come in italiano la “I(o) non c’è in Squadra. Non sempre avere troppo talento è la giusta soluzione.
Le majors sono piene di prospetti selezionati al primo turno che deludono e non è sempre dovuto allo stress a cui sono sottoposti. Recenti studi ritengono che sia più una questione di attitudine mentale e una eccezionale capacità di concentrazione. Un’attitudine da bull dog, una risoluta determinazione e rifiuto di accettare una sconfitta. Quindi, è il talento la vera chiave del successo? O il talento emerge quando è abbinato a un'attitudine mentale eccezionale?
Due squadre, due storie completamente diverse. Di recente Joe Carter è stato intervistato alla radio circa la sua esperienza con i Toronto Blue Jays che vinsero due titoli delle World Series nel 1992 e 1993, lo sciopero del 1994 poi interruppe la loro egemonia. Il roster era formato da molti giocatori di talento come David Cone, Jimmy Key, Al Leiter, Jack Morris, David Wells, Roberto Alomar, John Olerud, Joe Carter e Devon White. Ma c’era un problema; troppo talento ma nessun amalgama tra i compagni e nessuna devozione verso la squadra. Questi giocatori erano maggiormente concentrati alle loro prestazioni e al loro futuro tralasciando il rapporto di squadra. I giocatori che non erano in campo andavano giù negli spogliatori disinteressandosi completamente di quanto avveniva in campo.
Tutto cambiò però quando nel 1992 arrivò Dave Winfield. A lui Carter attribuisce il grande merito di aver cambiato la cultura dell’organizzazione guidando i Blue Jays a due titoli mondiali. Winfield si accorse subito della situazione e recatosi negli spogliatoi rimproverò con brutte maniere i compagni facendoli intendere l’importanza di essere uniti e che il baseball è uno sport di squadra e non personale. Da quel momento in poi le cose cambiarono e Winfield fu il vero stimolatore. Chissà, forse fu solo una coincidenza che proprio Winfield realizzò la valida che fece vincere a Toronto le prime World Series.
E questo ci porta ai miei Detroit Tigers. Dal 2006 al 2012 da Detroit son passati fior fior di giocatori a cominciare da una rotazione considerata da molti la più talentuosa di sempre formata da Justin Verlander. Max Scherzer, David Price, Anibal Sanchez e Rick Porcello, tutti lanciatori che hanno uno o più Cy Young Awards.
Nel lineup si sono alternati nei vari anni Ivan Pudge Rodriguez, Miguel Cabrera, Victor Martinez, Prince Fielder, Magglio Ordonez, Carlos Guillen, Gary Sheffield e ad oggi nella memoria dei tifosi resta solo un grande rammarico.
Al contrario di quanto successo per i Blue Jays, ai Tigers è mancato il leader. Non c’era armonia, ma solo invidia e concorrenza tra i lanciatori, cazzottate negli spogliatoi e qualche lanciatore decideva da solo quando terminare la sua prestazione preferendo pensare a quando sarebbe andato in banca ad incassare l’assegno piuttosto che concentrarsi per riportare a Detroit un titolo mondiale che ormai manca da troppo tempo.
E’ un'ennesima prova di come un leader può trascinare una squadra, importante è averne uno che trasmette anche una cultura vincente. Si può notare che in più di una occasione, ho accennato a cultura vincente e non squadra vincente, sono due concetti completamente diversi e non vanno messi sullo stesso piano.
Per chi volesse approfondire il concetto, BOTR ha già trattato l’argomento in un articolo del 1/9/21.
Frankie Russo
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